IL MASTER SULL'ABUSO SUI MINORI (La lunga notte senza luna)

Nel 2017 l’esperienza accumulata attraverso la collaborazione con il Tribunale e a livello clinico, nell’ambito dell'abuso sessuale sui minori, si è tradotta nella necessità di sistemarla in una cornice teorica e metodologica di riferimento. Così decisi di frequentare il Master Biennale per esperti nella tutela dei minori:' Il trattamento multiprofessionale di bambini ed adolescenti vittime di violenza', organizzato dal Centro Bambino Maltrattato di Milano, la operativa ARIMO e la scola di psicoterapia 'Mara Selvini Palazzoli', tenutosi a Milano.
Esperienza profonda ed illuminante che mi ha aiutato ad acquisire conoscenze e strumenti per il trattamento dei casi di abuso.
I due anni di Master si sono conclusi con due importanti risultati:
1) La scoperta del concetto di trauma nei suoi ampi e complessi significati e l'approccio alla psicotraumatologia che è tuttora materia di approfondimento e formazione.
2) L'altro risultato è lo scritto riportato sotto che costituisce l'elaborato finale richiesto per concludere il Master. C'era la possibilità di scegliere tra varie opzioni di lavoro finale tra cui racchiudere la propria esperienza sotto forma di racconto.
Io ho scelto questo e il racconto che presento è il caso di Brigida la cui storia è entrata nel cuore di tutti coloro che l'hanno conosciuta seppur indirettamente.


La lunga notte senza luna


PREMESSA
Quando ho deciso di frequentare questo Master, ero fortemente motivata dall’esigenza di acquisire una cornice teorica e metodologica che andasse a sistemare il bagaglio di esperienza, accumulato in questi anni nell’ambito della tutela dei minori. Le mie aspettative non sono state tradite, anzi, in questi due anni mi sono sentita sollecitata soprattutto dal tema del trauma, divenuto poi, l’argomento di questo elaborato. La scelta della forma narrativa poi ha rappresentato un ottimo connubio per coniugare l’aspetto teorico con il desiderio di raccontare la storia di Brigida.
Di lei si parlerà ampiamente nelle pagine successive, qui dirò solo che mi è stata inviata al Centro dove lavoro, dall’ASL con un’indicazione di psicoterapia a supporto delle difficoltà del figlio nell’area dell’apprendimento. Normale routine! E invece si rivelerà tutt’altro! Non avrei potuto inquadrare e comprendere la complessità delle problematiche di questa donna senza l’apporto delle lezioni, dei riferimenti bibliografici e delle supervisioni che mi hanno offerto spunti importanti su come lavorare e su come riconoscere il trauma e gli aspetti ad esso connessi.
Il racconto si articola in 6 paragrafi: in tre Brigida parla in prima persona ripercorrendo la sua vita, negli altri è la psicologa ad esporre il proprio punto di vista clinico con riferimenti ai concetti di trauma complesso, DPTS, reazioni difensive, teoria dell’attaccamento. Chi svolge una professione d’aiuto sa che gran parte degli interventi richiesti, di qualunque natura siano, riguardano situazioni che celano sempre una qualche forma di trauma. Orientarsi verso una buona formazione che permetta di acquisire strumenti adatti e conoscenze approfondite è una tappa fondamentale se si vuole dotare di senso il proprio lavoro e non basarlo sull’improvvisazione. Da questo punto di vista il Master è stato una fonte di crescita ed arricchimento che hanno cambiato, anche su un piano umano, il mio approccio al lavoro con i pazienti.


A Brigida
e a tutte le persone
che hanno il coraggio
di narrarsi



VIOLENZA

Esco ora dalla psicologa, devo andare a riprendere mio figlio, anche lui avrà finito la sua ora di terapia e mi starà aspettando nella sala d’attesa. A quest’ora il centro si anima di gente, succede sempre così, è il cambio d’ora, i bambini che hanno terminato i loro trattamenti vanno via lasciando il posto a quelli dell’ora successiva, le terapiste scappano nel loro stanzino per un caffè, due chiacchiere, una sigaretta, nei corridoi si crea confusione, ma io mi sento frastornata per altro.
Nella testa risuona ancora l’eco della domanda della psicologa: “…lei quando ha incontrato la violenza per la prima volta?...”
Che cosa vuol dire? Nella mia vita è sempre stato così; se vado indietro con la memoria, i ricordi, anche i più lontani, hanno tutti lo stesso sfondo, le sfuriate incontrollate di mio padre, i suoi sfoghi sugli animali quando non poteva farlo su di noi, il terrore di quel coltello sempre presente, pronto a scattare alla minima infrazione di una delle sue regole imprevedibili, l’odore penetrante del letame che ci versava addosso se non finivamo in tempo le mansioni che ci assegnava… è stato così sempre
Qualche tempo fa, ascoltando alla tv un caso di cronaca di una bambina violentata e poi volata giù dal palazzo, mi è venuto in mente un ricordo, più che altro sensazioni, dovevo essere molto piccola, 3-4 anni, sento il calore di qualcosa di liquido che scende lungo la schiena, nelle orecchie il rumore del vento che mi passa attraverso e che ancora oggi mi disorienta. Solo dopo molto tempo, mettendo insieme a fatica le immagini, l’orribile verità ha preso forma ai miei occhi: mio padre mi aveva sospeso nel vuoto minacciandomi di lasciarmi cadere se avessi rivelato quello che mi aveva appena fatto.
Crescendo, le cose non sono migliorate, la violenza ha continuato a seguirmi come una compagna fedele che offre con devozione i suoi servigi. Non era solo da mio padre che mi dovevo difendere, c’erano i palpeggiamenti insistenti di mio zio, le molestie fastidiose di un vicino, chiunque sembrava in diritto di prendersi delle libertà con me.
La solitudine e la disperazione che mi assalivano mi spinsero tra le braccia di mio fratello che mi accolse senza remore, suggellando un legame malato e morboso che mi fece perdere ogni senso del limite. Oramai vivevo in un clima dove la promiscuità era ammessa a tutti i livelli: padri e figlia, zio e nipote, fratello e sorella ed io non riuscivo ad oppormi.
Ancora una volta mi venne incontro la violenza che mi suggerì una soluzione: se mi fossi uccisa tutto sarebbe finito. Tentai il suicidio a 19 anni, ma non vi riuscii, non ero capace neanche di ammazzarmi. Dovevo fare qualcosa per provare a sfuggire all’orrore della mia famiglia. Volevo una vita normale, sposarmi, avere una famiglia, lavorare, di fatto ho fallito su tutti i fronti!
Il primo ragazzo amava praticare il sadomaso, come se non ne avessi avuto abbastanza di esperienze estreme! Il secondo era affezionato alla droga più che a me al punto che si accorgeva di me solo quando bisognava portarlo in ospedale. All’ennesima overdose sono riuscita a mollarlo!
L’ultimo, è stato il mio capolavoro! Nei primi tempi era bello, lui, dolce e premuroso, mi teneva per mano, sembrava perfetto, ma in fondo, all’inizio lo sembrano tutti. Poi la lenta discesa verso l’inferno, 10 anni di umiliazioni, tradimenti, soprusi che avrei anche continuato a subire se non fosse stata per quella frase: “Mi sono messo con te perché non ho trovato di meglio”. Allora ho detto basta e l’ho lasciato. Ma lui no! Non si è rassegnato e sono cominciati i pedinamenti, gli appostamenti fuori scuola, gli interrogatori al bambino sui miei spostamenti e frequentazioni, le minacce a quanti si avvicinavano, l’inferno continuava.
Per fortuna una denuncia e un’ingiunzione del Tribunale lo hanno convinto a tenersi lontano ed oggi, finalmente ho un po’ di pace.
A parte la delusione e l’amarezza, questa storia ha lasciato un segno ben più importante, nostro figlio Raffaele, la mia gioia più grande, ma anche la mia più grande preoccupazione.
Spesso, guardandolo, mi chiedo se sarà lui l’erede del cospicuo patrimonio di violenza accumulato negli anni, se anche lui sarà risucchiato dai gorghi impetuosi di quella furia che apparteneva a mio padre ma che talvolta sembra impossessarsi anche di me. Temo questo più di ogni altra cosa e spero che la terapia mi aiuti a tenere a bada il mostro di rabbia, odio e rancore che alberga in me da tutta una vita.


TRAUMA
Brigida mi inquieta. Ogni volta che viene in terapia non sai mai con quale spirito arriverà. Certo questo è di tutti i pazienti, ma per lei le oscillazioni di umore sono molto accentuate. Può succedere che appaia impaurita perché ha visto il marito nel parcheggio del centro che la fissa da lontano, allora è nervosa e poco concentrata. Oppure arriva sorridente, la voce sottile, gli occhi dolci, l’espressione distesa, sono i momenti in cui parla compiaciuta del figlio elogiandone le virtù.
Altre volte sfodera la sua formidabile ironia, mostrandosi capace di battute argute e di riflessioni profonde. Poi ci sono i momenti in cui è il suo lato triviale ad emergere, allora diventa rabbiosa, volgare, senza freni, dalla sua bocca può uscire di tutto.
La storia di Brigida si può sicuramente definire una storia di trauma complesso, inteso come “ l’insieme di sintomi che esitano da traumi cumulativi interpersonali vissuti nel corso dello sviluppo”. Se il concetto di trauma si riferisce a qualunque evento che, impattando nella vita di un individuo, porta con sé un profondo senso di minaccia alla vita, allora il trauma complesso comporta un senso di minaccia prolungato e reale, ancor più se proviene dalla famiglia da cui si dipende e che dovrebbe offrire cura e tutela.
In questa vicenda il trauma non si riferisce ad un singolo evento o situazione, ma nasce da un intero sistema familiare dove ciascun soggetto ha agito tutte le forme di violenza alimentando un clima di perenne imprevedibilità, terrore, ostilità.
Quando Brigida mi ha raccontato gli episodi di violenza mi è venuto in mente un articolo letto tempo fa della Chasseguet-Smirgel che, a proposito dell’abuso afferma: “…Su questo palcoscenico, (quello dell’abuso), in cui immagine e rappresentazione dell’altro si scollano dalla realtà effettiva di azioni ed intenzionalità, si entra nella tendenza ad erodere i confini del possibile, a rendere possibile l’impossibile, cioè ad entrare nel mondo dell’impensabile, sia per quanto riguarda le esperienze dolorose dei bambini, sia per quanto riguarda il contatto con l’abusante…”. Ecco la storia di Brigida mi fa pensare all’impensabile per il notevole carico di sofferenza, tensione e impotenza che si è generato.
Eppure per lei l’abuso sessuale, per quanto precoce, reiterato, multiplo, non ha costituito il peggiore dei mali e neanche i maltrattamenti fisici e le minacce, perché ad un certo punto diventano prevedibili e colpiscono solo il corpo, ma è l’essersi sentita invisibile tutta la vita che non riesce a tollerare.
Invisibile vuol dire non essere chiamati per nome, non poter scegliere, non essere considerati, significa ingrassare fino a 150 kg. affinché qualcuno ti noti e anche se ti dice che sei brutta e grassa almeno ti ha visto.
Cosicché non essere visti, riconosciuti, non avere nessuno a cui rivolgersi per sentirsi al sicuro, è stato sicuramente sconvolgente o addirittura distruttivo se si pensa a lei piccola, in cerca del suo posto nel mondo.
Un’altra parola che Brigida usa spesso è rassegnazione che vuol dire anche sfiducia e insicurezza verso se stessa e il mondo e la cosa non stupisce!
Un’ampia letteratura ha oramai evidenziato che il senso di sicurezza nel mondo si acquisisce nel corso dei primi anni di vita in relazione con le figure di accadimento primaria. Il senso di fiducia e di affidamento che si va costituendo a partire da queste prime esperienze sostiene una persona nel corso della sua vita alimentando e strutturando il suo sistema di relazioni. Questo indica che l’esperienza primaria di cura e di accoglienza rende possibile guardare al mondo con ottimismo aprendo alla speranza e alla capacità di autodeterminazione. Quindi, quando un genitore benevolo si mostra attento e sensibile all’individualità e dignità del proprio figlio, questi si sente valorizzato e rispettato e, soprattutto incoraggiato a sviluppare la stima di sé e il senso di autonomia. I toni di Brigida vanno in tutt’altra direzione: “ Il torto è sempre dalla mia parte”, afferma spesso, annichilita dalla profonda convinzione di non poter accedere alla dimensione del desiderio, del sogno, di non poter fare progetti, sicura com’è che poi andrà male, come quella volta che tentò un concorso, ma il giorno prima si fratturò un braccio in un incidente, vanificando, di fatto, la possibilità di emanciparsi.
E poi c’è la rabbia, intensa, spaventosa, che quando arriva somiglia ad una di quelle tempeste di pioggia improvvisa capace di devastare ogni cosa. Ne sono stata travolta anche io in più di un’occasione specie quando si toccano temi molto dolorosi che la fanno esplodere, mettendo a dura prova sia la tenuta del setting sia il prosieguo della terapia.
Credo che questo sia uno dei punti più critici del percorso perché l’obiettivo dovrebbe essere di trasformare questa rabbia agita in qualcosa di “pensato” che le possa consentire di accettare ed integrare il suo passato nel suo presente con uno sguardo magari anche sul futuro. Ci stiamo provando!


LA MADRE
La terapia è faticosa e quando si parla di mia madre lo è ancora di più. L’ho detto più volte alla psicologa di non toccare questo argomento, non ce la faccio, ma lei insiste e puntualmente ci finiamo sopra, evidentemente è una tappa obbligata che devo affrontare.
Sono nata in una famiglia dove l’essere femmina costituisce una vera disgrazia, vali meno di niente! Mia madre, donna dai lineamenti fini e delicati, ha dedicato tutta la sua vita a coltivare la terra e allevare animali, trascurando completamente la sua femminilità e bellezza che sono sfiorite presto.
Forte e decisa, ha sposato mio padre per ripicca verso la famiglia che la voleva sposata ad uno locale, ma l’affare è stato pessimo, il loro rapporto è stato disastroso fin dall’inizio per gli atteggiamenti violenti di mio padre che ci ha sempre paralizzato per la paura.
Quando penso a mia madre è difficile dire cosa provo, perché se da un lato non ha mai smesso di accanirsi contro di me con le sue critiche spietate che mi hanno annullato, se non ha mai impedito i rapporti incestuosi, dall’altro, so che ha fatto quel che ha potuto per sottrarci alle costanti minacce di morte di mio padre.
Accadeva che quando riusciva a prendersi cura dei figli, questo sembrava infastidirlo molto fino a farlo scatenare. Era come se non sopportasse che ai figli fossero dedicate delle attenzioni, forse perché neanche lui le ha ricevute. Con la psicologa abbiamo ripercorso la sua storia e ho capito che anche lui ha sofferto molto, la morte prematura della madre, l’abbandono della zia, il collegio, un’infanzia di privazioni e un ambiente familiare tirannico e prevaricatore, vicino addirittura alla malavita del posto, devono spiegare il suo tremendo carattere e l’incapacità di mostrare affetto, ma sono contenta che sia morto, perché solo così potevo liberarmi di lui. Mio padre è stato un maledetto mostro che ci ha tenuto in ostaggio, oppressi da un incessante senso di allarme e di paura. Ringrazio Dio che sia morto e, insieme a lui, mio zio che non è stato da meno.
Dopo la separazione sono tornata a casa dei miei e non avrei dovuto, lo so. Vivere con una donna che nega quello che è successo e sconferma quello che faccio mi mette a dura prova, ma non posso permettermi altro, sia per questioni economiche sia perché così posso stare più vicino a mio figlio. Ma tutto ha un prezzo e il mio è quello di dover sottostare ai capricci di un’anziana che oramai vive in un suo mondo, convinta di aver fatto tutto bene e consapevole di aver bisogno di me anche se non me lo dirà mai.
Si lamenta, brontola, ma alla fine vince sempre, è la più forte ed io sono solo un prodotto sbiadito che non ha né la sua forza, né la sua tenacia. Non è facile dover ammettere di essere alla sua mercè, perché segna una grande sconfitta, ma mi permette di rassegnarmi e sopportare meglio la realtà.
Mia madre resta una figura assolutamente enigmatica per i suoi comportamenti, molti dei quali incomprensibili, come la decisione di non separarsi da mio padre, immagino per orgoglio, perché avrebbe dovuto ammettere di aver sbagliato a scegliere lui o magari per proteggerci.
Mi chiedo perché si sia tenuto in casa mio zio per 34 anni permettendo anche a lui di spadroneggiare sulle nostre vite, perché ha prediletto così tanto mio fratello instaurando un rapporto quasi morboso e riservando a me disprezzo e noncuranza.
Sono interrogativi destinati a non avere risposte, ma solo ipotesi che neanche mi piacciono.
La psicologa mi spinge a rimanere concentrata sul mio ruolo di madre, sottolineando più le differenze delle somiglianze con mia madre; dice che sono maggiormente capace di prendermi cura di mio figlio, di saperlo proteggere di più, questo mi aiuta, è importante per me prendere le distanze da mia madre, ma prima che sia convinta del tutto passerà tempo, la strada è lunga.


LE DIFESE
Che cosa è diventata Brigida con tutto il carico di dolore e sofferenza che si porta dentro?
Sul piano clinico attraversa in pieno tutte e tre le dimensioni che misurano il livello di gravità degli abusi subiti:
 Il tipo di abuso subito e la durata: dai racconti non si comprende bene se ha avuto rapporti fisici completi, in ogni caso sembrano essere durati a lungo in un clima di minaccia e paura.
 L’età e le risorse individuali di cui dispone: gli abusi sono iniziati in un’età precocissima senza che vi sia stata la possibilità di sviluppare adeguate risorse per potersi difendere.
 L’identità dell’abusante: più figure, nell’ambito familiare hanno avuto contatti di tipo sessuale con lei.
Brigida non scende mai nei dettagli, né io glieli chiedo, aspetto che sia lei a farlo quando se la sente, forse è anche un modo per proteggere me stessa da particolari aberranti che turbano non poco. In ogni caso, l’insieme dei traumi interpersonali vissuti, interferendo con il suo normale sviluppo psichico, affettivo e relazionale, hanno alterato le 6 macro aree comportamentali, le cui manifestazioni sintomatologiche determinano un quadro psicopatologico rilevante e complesso.
1. La regolazione delle emozioni e degli impulsi: Brigida incontra moltissime difficoltà a gestire emozioni intense come la rabbia che si manifesta attraverso esplosioni incontrollate. Altre volte, invece, si presenta profondamente depressa, i pensieri negativi, persino la postura ripiegata su se stessa risente di questo stato. A questo si aggiungono comportamenti auto lesivi (abbuffate di cibo), tendenze suicidarie (2 tentativi), scarsa capacità auto protettiva (fidanzati violenti, inadeguati, incidenti…).
2. Attenzione e consapevolezza: riguarda il meccanismo di dissociazione, essenza del trauma. L’esperienza di vita di Brigida è frammentata cosicché ricordi, immagini, sensazioni talvolta emergono in modo improvviso e involontario. E’ capitato che facesse riferimento per es. a persone che la riportavano indietro con la memoria, oppure a situazione che riattivavano il vissuto di invisibilità cosa che la manda fuori di testa. La sua memoria è caotica, disorganizzata e non adattiva come quella ordinaria. Te ne accorgi quando, all’improvviso interrompe il flusso delle nostre riflessioni per raccontare un qualche episodio riapparso dal passato, come se sentisse un bisogno irresistibile di tirarlo fuori senza un vero scopo, oppure quando un banale evento del presente funge da stimolo per rimandarla nel passato.
3. La percezione di sé: disastrosa! Senso di impotenza, scarsa autoefficacia, sensazione di sentirsi danneggiata,, senso di colpa e di vergogna, bassa autostima, rassegnazione, non sentirsi compresa, vista, considerata, Brigida rispecchia pienamente le caratteristiche di quest’area che, a mio parere, risulta la più compromessa. E’ in gran parte consapevole di questi aspetti non riconoscendosi alcuna possibilità di cambiamento.
4. I rapporti interpersonali: il tratto che accomuna la maggior parte delle sue relazioni è l’incapacità di mettere le giuste distanze con le persone verso le quali spesso mostra un’eccessiva intimità e vicinanza; io credo che questo sia un modo per sentirsi speciale, così come il porsi come “infermiera” che si prende costantemente cura dell’altro, unico ruolo riconosciutole dalla famiglia.
5. Somatizzazione: mangiare, ingrassare fino a dover ricorrere all’ intervento chirurgico è stato il modo di Brigida di provare a rendersi visibile somatizzando la profonda amarezza di tutta una vita.
6. Sistemi di significato: la visione che ella ha di se stessa è tutta sbilanciata verso il disincanto e la disillusione che non le permettono di riconoscersi una qualche forma di valore e di sentirsi padrona della propria vita e delle proprie scelte.
La storia di questa donna, dal punto di vista dei suoi sintomi, affonda le radici in un’ esperienza primaria in cui si è andato progressivamente strutturando un attaccamento disorganizzato, dove quelle stesse figure che dovevano garantire sicurezza e protezione, sono state invece fonte di una “paura senza fine”. Il risultato? Lo descrivo con le parole di Van Der Kolk: “…Se non si dispone di un senso di sicurezza interno, è difficile distinguere la sicurezza dal pericolo. Se ci si sente costantemente obnubilati, situazioni potenzialmente pericolose possono farci sentire vivi. Se ci si convince di essere una cattiva persona (altrimenti per quali motivi i genitori ci avrebbero trattato in modo orribile?), ci si comincia ad aspettare che le altre persone ci tratteranno in modo orribile. Probabilmente ci si merita tutto questo e, comunque, non c’è niente che si possa fare in merito. Quando individui disorganizzati hanno delle auto rappresentazioni come queste, sono sostanzialmente programmati per essere traumatizzati da esperienze successive…”


PASSATO,PRESENTE,FUTURO
Per fortuna, in terapia il passato non è sempre al centro dell’attenzione. Mi piace quando si parla di mio figlio, dei suoi progressi a scuola, delle cose che facciamo insieme. Il mio presente è questo, dedicarmi a lui, qualche uscita con un’amica, il lavoro in campagna, piccoli gesti che riempiono la mia quotidianità.
Certo mi piacerebbe incontrare un brav’uomo, avere una relazione, ma data la mia attrazione per le situazioni patologiche, devo stare attenta a non infilarmi in qualche altro incubo. Essermi separata è stata la cosa migliore che potessi fare per me stessa e non ho intenzione di tornare indietro!
E poi c’è lei, mia madre, un impegno non da poco, destinato, negli anni, a diventare più gravoso perché sarà sempre meno autonoma e avrà bisogno di maggiore assistenza e naturalmente toccherà a me.
Con la psicologa ultimamente stiamo affrontando proprio questo tema ed ho capito che lei, tra tutti quelli che mi hanno fatto male, è stata la “meno peggio”, non che sia stata buona con me, ancora oggi mantiene intatto il suo atteggiamento sprezzante e caparbio e me ne dà un saggio ogni giorno, ma almeno riconosco che ha tentato una qualche forma di protezione, anzi, a dire il vero, a volte provo una gran pena perché so che anche lei ha dovuto subire molte umiliazioni e maltrattamenti. Questo mi fa provare meno rabbia e, come spera la dottoressa, mi può aiutare a tollerare il suo carattere.
La verità è che starò veramente meglio solo quando morirà, troverò la mia pace, come è già accaduto con mio padre e mio zio. Da quando loro non ci sono più un senso di liberazione e alleggerimento hanno preso il posto dell’angoscia e dell’oppressione e sono delle bellissime sensazioni, mai provate prima! Talvolta, di notte, mi sveglio di soprassalto, sento i lamenti di mio padre che mi chiama, il cuore in gola, il corpo paralizzato nel letto, il sudore freddo che mi percorre tutta, poi piano piano mi calmo e realizzo che era un sogno, lui non c’è più, è tutto finito. Si! Sono contenta che sia morto, non è una cosa bella da dire, ma non posso ignorare la soddisfazione che sento nel sapere che non può più nuocere. E’ con questo spirito che mi reco al cimitero, dove i pensieri si affollano, ricordi, immagini si sovrappongono, allora la rabbia sale e devo andare via.
Qualche volta però penso alle loro storie che pure sono state drammatiche e divento un po’ più comprensiva, soltanto un po’.
La verità è che io sono figlia dell’incontro di due malati, figli, a loro volta, di due famiglie ugualmente malate, bieche ed egoiste, il cui unico valore è stato quello di salvaguardare i propri interessi, ignorando i principi di base della comune morale e non considerando la sofferenza che hanno causato.
Una parte di me appartiene a questo sistema e non posso farci niente, non posso cambiare la realtà, ma un’altra parte si augura di essere migliore di loro, di avere qualche possibilità in più, ma soprattutto la speranza che per mio figlio le cose andranno diversamente, per lui il futuro si presenta più sereno.
Si sta facendo buio, seduta sulla panchina, nell’angolo in fondo alla piazzetta costruita con pezzi di colonne e capitelli romani di questo borgo antico, guardo il sole che, tramontando, stende i suoi raggi infuocati su un mare di vetro trasparente, ravviva il giallo tufaceo delle insenature capricciose che delineano la costa, accarezza i morbidi lineamenti delle colline sullo sfondo, tinge di rosa e arancio le soffici nuvole che se ne stanno immobili nel cielo, come ad aspettare di essere inondate di luce. Magnifico! Domani sarà bello, ma prima che arrivi bisogna lasciare la scena alla notte, che per me sarà ancora lunga, una lunga notte senza luna.


IL TRATTAMENTO
Per un popolo come quello napoletano che ha costruito parte della sua identità sulla superstizione con riti e consuetudini che modellano la vita quotidiana, la morte è una questione seria, va trattata con rispetto e non si può pensare di esserle superiore. Abbiamo un detto, “Morte desiderata non viene mai”, lo ripeto a Brigida con toni un po’ scherzosi ogni volta che afferma che la morte della madre metterà fine ad ogni cosa. Forse sarà anche così, ma io la invito comunque a lavorare sulla possibilità di sviluppare maggiore autodeterminazione.
Il percorso terapeutico di Brigida è stato incostante e faticoso fin dall’inizio a causa della sua imprevedibilità. Nel corso del tempo mi sono resa conto che il comportamento della paziente oscillava da modalità sottomesse (vittimismo, dipendenza, compiacimento dell’altro) ad altre seduttive (eccessivo investimento nella terapia, bisogno di vicinanza) che, secondo quanto evidenziato anche in una lezione di Selvini, appartengono a personalità con stili di attaccamento disorganizzato. Egli afferma che costituiscono delle strategie di riorganizzazione della personalità finalizzate a controllare la figura di riferimento rendendola meno minacciosa e a cercare maggiore visibilità ed attenzione.
Con questa premessa, possiamo dire che il lavoro terapeutico ha attraversato varie fasi: la rivelazione degli abusi è avvenuto in un momento in cui Brigida era agitata a causa del marito che la perseguitava per cui ci si è limitati ad offrire un supporto di ascolto e contenimento. Quando la vicenda si è ridimensionata, grazie all’intervento delle Forze dell’Ordine, Brigida ha cominciato a parlare della sua vita e si è potuto tentare di esplorare gli eventi traumatici. In effetti è stato fondamentale garantirle una certa sicurezza perché, attraverso una maggiore libertà di azione e movimento, ha potuto sperimentare la capacità di prendersi cura di sé e di rassicurarsi.
Ci siamo concentrati sul passato con l’intento di rompere il silenzio, oltrepassare il muro della colpa e della vergogna, dare parola al dolore, narrare l’indicibile. Per Brigida raccontare la storia è importante, si mettono insieme i pezzi e i ricordi possono essere elaborati; certo non è detto che riuscirà a superare tutto, la psicoterapia non elimina il trauma, però può produrre significati nuovi, scoprire prospettive diverse da cui guardare i propri ricordi, magari restituirle quel sollievo e quella speranza che muovono il cambiamento.
Se per Brigida ripercorrere la propria storia traumatica non è stato né semplice né lineare, per me l’ascolto è stato altrettanto pesante. La mia resistenza ad ascoltare e metabolizzare i contenuti si è sommata e confusa con la sua, con la conseguenza di andare incontro a mancanze ed errori professionali tanto maggiori quanto più forte è l’impatto con la situazione, con l’impotenza e il dolore.
E’ stato a questo punto che ho deciso di portare questa storia alla supervisione del Master con la precisa richiesta di avere un feedback su come stavo procedendo e su quali obiettivi puntare.
In supervisione si è venuta a creare una situazione per me insolita: il gruppo, sinceramente colpito da questa donna, mi ha chiesto di scrivere una lettera a nome di tutti in cui si esprimere la grande ammirazione per il coraggio mostrato nell’affrontare tante avversità.
La consegna della lettera a Brigida ha prodotto, come effetto immediato, una profonda commozione e gratitudine perché si è sentita attraversare da una ventata di visibilità e considerazione come raramente è accaduto. A lungo termine, questo gesto, credo abbia contribuito a consolidare la fiducia della relazione terapeutica nonostante momenti di crisi e perfino di interruzione.
Dallo scorso autunno, il percorso è ripreso in modo regolare, Brigida è assidua e motivata a stare meglio per se stessa e perché vuole essere una buona madre. Continuiamo a ricostruire il passato, ma in un modo diverso, meno arrabbiato. Avere uno spazio dove sentirsi ascoltati e compresi, dove poter nominare e riconoscere quello che le è successo, è un modo di esercitare un nuovo tipo di controllo, laddove, finora, il silenzio ha segnato l’unica via per dominare la paura e al vergogna. Brigida sa bene cosa vuol dire ignorare la realtà interiore, negare ostinatamente quella esterna, custodire segreti e nascondere informazioni, vede la madre fare questo ogni giorno in un lento ed incessante processo di deterioramento di un sé perennemente in guerra con il mondo, per tenere in piedi un sistema di bugie e falsità dove continuare ad illudersi. No! Brigida ha scelto la verità anche se fortemente penosa distanziandosi dalla madre e da quella fucina di inganni quale è stata la sua famiglia.
Seguendo il modello di Lewis Herman che suddivide il trattamento con le vittime di traumi in tre fasi: 1. sicurezza e stabilizzazione, 2. venire a patti con la memoria traumatica, 3. integrazione e costruzione di senso, Brigida è ancora nella seconda con brevissime incursioni nella terza. L’obiettivo è di elaborare il lutto per ciò che ha perso e soprattutto per ciò che non è stato per non doversi perdere in quella disperazione esistenziale che non ha potuto affrontare nell’infanzia.
Consapevole del fatto che la ricostruzione del trauma non sarà mai interamente completa poiché nuovi eventi potranno sempre risvegliarlo, la sfida è percepire, nominare, identificare ciò che accade dentro di sé ed imparare a padroneggiare meglio le proprie emozioni.
Rispetto alla terza fase, spero che Brigida riuscirà ad integrare l’esperienza traumatica nella sua vita, a riguadagnare la fiducia verso gli altri, ad accedere a nuove forme di coinvolgimento affettivo.
Siamo ancora lontani, però l’aver accettato che la sua storia fosse divulgata in un racconto con l’intento di “essere di aiuto a quanti hanno vissuto esperienze simile alla mia” potrebbe annunciarsi come il timido avvio di una diversa esistenza.


BIBLIOGRAFIA
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